Etico, Digitale. L’epoca in cui il bene diventa un oggetto computabile

etico digitale

 

Etico. Digitale. In CRMpartners ci facciamo domande sulla direzione in cui la rivoluzione digitale ci guida. Se la chiamiamo Digital Transformation sembra una realtà intuitiva, inerente al mondo delle aziende, in fin dei conti una cosa tecnica. Se la chiamiamo Rivoluzione Digitale, siamo portati a farci qualche domanda in più. Fino a chiederci: è possibile un’algoretica?

Etico. Digitale. Così ci siamo voluti caratterizzare in una campagna stampa pubblicata sui maggiori settimanali nazionali durante il 2021: è chiaro che non si tratta di Corporate Social Responsibility. Ma nemmeno si esaurisce nel percorso che ci ha portato a essere B-corp e a intraprendere la strada che ci porterà ad assumere la forma societaria di Società Benefit. In effetti quello che abbiamo voluto comunicare è che il nostro modo di intendere la digitalizzazione dei processi all’interno delle aziende ha di per sé una caratteristica di eticità. Perché la maggiore trasparenza dei processi, la liberazione di chi lavora da mansioni ripetitive, la stessa possibilità del lavoro da remoto sono elementi che migliorano l’ecosistema lavorativo.

Un secondo aspetto riguarda la semplificazione dei processi e la proposta di una trasformazione digitale che possa essere adottata dal basso: un approccio democratico ai tool del lavoro contemporaneo, per limitare al massimo l’influenza degli specialisti, che consapevolmente o meno, sono in quanto tali portatori di un’etica (dei pericoli di questa inconsapevolezza ha parlato Anna Wiener nel suo bellissimo romanzo autobiografico “La Valle Oscura”)

Una terza caratteristica etica che la digitalizzazione dei processi produttivi porta in sé, come attitudine positiva che si nasconde tra le pieghe del cambiamento è la riduzione delle distanze tra chi produce un bene o eroga un servizio e chi ne fruisce: se è vero che gli strumenti della digital transformation hanno posto “il cliente al centro” secondo un mantra diventato vuoto a forza di sentirlo, è vero che istanze larghe, come ad esempio la sostenibilità ecologica, hanno una strada privilegiata per arrivare fin dove i beni e i servizi si progettano, dato che i canali di comunicazione sono ormai ampli, diversificati e aperti.

Persone che sono chiamate ad esprimere la propria creatività, processi trasparenti, comunicazione semplice, strumenti alla portata di tutti: la digital transformation sembra portare in sé un’impronta etica decisa.

Ma essendo un’etica implicita, porta in sé i rischi di tutte le tecnologie che in quanto tali si presentano come neutre: essere un’etica al servizio del sistema produttivo vigente e quindi, potenzialmente conservativa, persino quando si presenta come cambiamento.

E non a caso sono in molti a non condividere il nostro punto di vista positivo sulla digitalizzazione.

Allora quel che serve è esplicitare le norme etiche, renderle un oggetto coputabile, e darle in pasto agli algoritmi, perché non ci impongano regole in modo occulto, ma siamo al contrario noi a regolarli anche secondo un’idea di bene.

Di questo si sta occupando da qualche anno Paolo Benanti che oltre a essere uno dei massimi esperti di rivoluzione digitale italiani, frate francescano, è anche l’inventore del neologismo che indica la disciplina dell’insegnare la via del bene agli algoritmi, cioè l’algoretica.

Se pensiamo ad esempio che gli strumenti di marketing automation avvicinano le persone agli algoritmi, facendone delle realtà computazionali a loro volta (pensiamo al profilo del cliente che viene costruito via via grazie al CRM e alle interazioni automatizzate elaborate da strumenti di Intelligenza artificiale), è evidente che c’è un aspetto inquietantemente disumanizzante in pratiche che ormai sono diventate comuni.

Ma non sono le macchine a volerlo: le macchine non hanno altra volontà di quella dei loro inventori. E quindi, come sostiene Anna Wiener, di maschi, bianchi, ricchi, che hanno studiato a Stanford…

Si tratta quindi di inserire elementi etici espliciti negli algoritmi, che altrimenti hanno il solo scopo di far fare soldi a chi li ha costruiti: dalla sicurezza, alla protezione della privacy, fino all’esclusione di pratiche scorrette, o discriminatorie, i buoni intendimenti vanno insegnati alle macchine. Non è una via facile, quella dell’algoretica, come tutte le pratiche che mettono in discussione le relazioni di potere vigenti.

Ma da qualche parte bisognerà cominciare.

A noi farà piacere pararne con te. Se ti va lasciaci il tuo contatto.

 

 

 

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